Museo Monumento al deportato politico e razziale

Emilia Romagna | Carpi (MO)

Il luogo e le vicende

Carpi è un comune di circa 60.000 abitanti nella “bassa modenese”, che nel periodo resistenziale insieme ai comuni limitrofi di Soliera, Novi e Campogalliano costituiva la cosiddetta 1ª zona partigiana, territorio nel quale la lotta di Liberazione assunse molto vigore. Tuttavia, poco distante dal pese, nella frazione di Fossoli, le SS impiantarono un campo di transito per la deportazione politica e razziale verso i campi nazisti. Esso fu costruito nel maggio del 1942 come luogo di detenzione dei prigionieri di guerra, diretto ed amministrato dal Regio esercito italiano: una parte fu costruita in muratura mentre una seconda, in seguito denominata “campo nuovo”, era costituita da una campo attendato. Nella notte tra l’8 ed il 9 di settembre 1943 il campo venne occupato dai tedeschi ed i prigionieri inviati in Germania. Nel dicembre, l’amministrazione comunale di Carpi venne ufficialmente informata dell’intenzione di costituire a Fossoli un campo di concentramento per gli ebrei arrestati in Italia e il 5 dicembre, diretto dalla Questura di Modena, esso entrò ufficialmente in funzione. Dal febbraio ’44, mentre il campo vecchio rimase sotto il controllo delle autorità italiane e venne utilizzato come campo d’internamento per civili, il “campo nuovo” diventò un Polizei und Durchangslager (campo di polizia e transito) dipendente dalla polizia di sicurezza con sede a Verona. Il passaggio al controllo tedesco comportò naturalmente l’inasprimento della disciplina ed un peggioramento delle condizioni di vita al suo interno. Ufficialmente, il campo era sotto il controllo del sottotenente Carl Titho, ma era di fatto diretto dal maresciallo Hans Haage e da un piccolo gruppo di SS. Non è ancora chiaro quale fosse il rapporto tra i due campi né se nel campo tedesco fossero impegnati anche carcerieri italiani (fatto largamente ipotizzabile visto l’esiguo numero di SS presenti).

A metà luglio ’44 il campo d’internamento italiano viene sciolto per ordine del ministero degli interni e, di lì a poco, lo stesso destino toccò al campo tedesco. In quel periodo, infatti, visti i progressi delle truppe alleate ed il rafforzamento della lotta partigiana nella zona, si pensò di trasferire il campo in zona più sicura: a Gries, nei pressi di Bolzano. Le incursioni aeree degli alleati resero i trasferimenti molto difficoltosi, gli internati vennero portati a Verona e dai lì trasferiti: i politici a Mauthusen o Dachau, gli ebrei ad Auschwitz o a campi di lavoro quali Buchenwald, Rawensbrück o Bergen Belsen. L’evacuazione del “campo nuovo” terminò ad inizio agosto quando i tedeschi vi insediarono la Delegazione generale per l’invio di manodopera in Germania. Il campo mantenne questa funzione fino al novembre del 1944 quando, irrimediabilmente compromesso dai bombardamenti, venne abbandonato. Da questo momento fino alla fine della guerra il campo rimase inutilizzato, ma dal 1947 al 1970 esso fu utilizzato per diversi scopi, tanto che oggi la sua natura di campo di transito è quasi totalmente cancellata dalla sovrapposizione dei molti segni del suo passato più recente. Gli anni dal 1945 al 1947 furono certamente il periodo più difficile della storia di Fossoli nel dopoguerra, essendo esso centro di raccolta profughi stranieri. La chiusura del campo venne decretata nel febbraio del 1947 su richiesta del Nunzio Apostolico per la tutela della moralità degli internati. Dal maggio 1947 all’agosto 1952 il campo fu occupato dall’Opera Piccoli Apostoli creata dal sacerdote Don Zeno Saltini per dare una famiglia ai piccoli orfani di guerra. Il 14 febbraio 1948 l’Opera piccoli apostoli diventò “Nomadelfia” e si dotò di una costituzione. Nel 1952 Nomadelfia venne sfrattata dal campo di Fossoli e sciolta, Don Zeno venne allontanato dai bambini ma riuscì a ricostituirla a Grosseto dove si trova tuttora. Dal 1954 al 1970, invece, il campo diventò ciò che oggi tutti ricordano: il villaggio San Marco per i profughi giuliano dalmati. È evidente, dunque quanto la stratificazione delle memorie di questo sito sia complessa e come, altrettanto complessa, sia la sua opera di tutela.

Nel dicembre del 1962 il sindaco di Carpi Bruno Losi tenne una conferenza stampa in Senato nella quale annunciava il progetto di voler creare nella sua cittadina ‒ vicina all’ex campo di transito di Fossoli ‒ un Museo monumento al deportato politico e razziale, per “valorizzare il sacrificio e la Resistenza di migliaia di italiani nei campi di deportazione e di sterminio nazisti”. Nel gennaio successivo venne bandito il concorso per la sua realizzazione, vinto dallo Studio BBPR di Milano, costituito dagli architetti Gian Luigi Banfi, Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Peressutti ed Ernesto Nathan Rogers. L’obiettivo dichiarato della giunta che volle il museo fu quello di creare un “museo monumento”, uno spazio, cioè, che nel suo essere un’opera d’arte immutabile nel tempo, fosse assolutamente immune da qualsiasi revisionismo e inattaccabile dallo scorrere del tempo e dalla continua evoluzione di codici e linguaggi di comunicazione. Non è probabilmente un caso che la proposta di allestimento ritenuta migliore sia stata quella di gruppo di architetti che avevano vissuto, più o meno direttamente, l’esperienza della deportazione: Banfi era morto a Mauthausen, Belgiojoso era stato deportato dapprima a Mauthausen poi a Gusen, come anche il padre di Rogers. La creazione di questo museo (che fu inaugurato soltanto nel 1973 a causa di problemi economici) fu dunque uno dei primi atti di affermazione dell’importanza e della necessità della costituzione di una memoria pubblica della deportazione. L’allestimento è tuttora dominato da una persistente aura di sacralità. Il giardino e le stanze a piano terra del palazzo dei Pio ‒ ristrutturate e restituite alla loro originaria spazialità, alterata nel tempo da numerosi interventi di rimaneggiamento ‒ vennero completati da elementi architettonici e pittorici che avevano come tema la deportazione. Tuttora, nel giardino sono infisse 16 stele che portano incisi i nomi di tutti i campi di concentramento, in modo che il visitatore possa immediatamente rendersi conto delle dimensioni del fenomeno deportazione. All’interno, le tredici sale sono commentate dai graffiti realizzati dalla Cooperativa muratori di Carpi (su schizzi di importanti artisti quali Picasso, Lèger, Guttuso, Longoni) e dai brani tratti dalle lettere dei condannati a morte della Resistenza europea che, incisi sulle pareti, rappresentano probabilmente il principale oggetto museale. All’interno di alcune sale si trovano vetrine che custodiscono oggetti appartenuti ai deportati: oggetti quotidiani, semplici, forse anche banali ma che, per chi ha letto qualsiasi opera di testimonianza sui Lager, assumono un altro significato, si trasformano, diventano oggetti preziosi, indispensabili, oggetti che portano su di sé il significato di tutto ciò che migliaia di uomini e donne hanno vissuto nei campi. L’ultima sala è la sala dei nomi, un incredibile condensato di emozioni; al cui interno troviamo 14.000 nomi di italiani deportati nei campi di concentramento, una soluzione di grande impatto emotivo ispirata a Belgiojoso dalla Sinagoga di Praga. In questo allestimento non c’è alcun intento di documentazione storica, quanto la volontà di comunicare attraverso quella che, in museologia, viene definita la “patina oggettuale”: quella particolare carica comunicativa che ogni oggetto assume nel momento in cui non è chiamato a rappresentare una tipologia, ma ad essere semplicemente se stesso, un oggetto con una precisa storia d’uso alle spalle . Il Museo non mira dunque a raccontare la deportazione, ma ad evocarla, a smuovere le coscienze, a richiamare i ricordi e le conoscenze che ognuno di noi ha su quegli avvenimenti.

Comune di Carpi (MO)